Avevo 14 anni quando varcai il cancello di Auschwitz, quello tristemente famoso con la diabolica iscrizione “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi).
Fino a quel momento la cosa che più mi aveva stupito è che non esistesse nessuna città di nome Auschwitz in Polonia, ma un più anonimo paese di nome Osweiecim che i tedeschi ribattezzarono durante l’occupazione.
Varcato il cancello è cambiato tutto. Per tutto il tempo della visita sulla famigliola allegra in vacanza è calato il silenzio. Nessuno di noi ha deciso di stare zitti, di non dire nulla, tutto è apparso logico, consequenziale.
Le reti di recinzione, le foto nelle quali venivano schedati i prigionieri, i blocchi, i “letti”, i bagni comuni, le celle di un metro quadrato, gli ammassi di capelli, di zyklon B, di protesi, di occhiali, le camere a gas, i forni crematori, le tristemente famose tute strisciate, le valigie, tutto ti colpiva lasciandoti a bocca chiusa.
Ma la cosa che ricordo con più sgomento era il fango. Era estate e stava piovigginando, dopo giornate di gran sole, ma era impossibile camminare nel campo senza essere coperti dal fango. Non so perchè ma la cosa che più mi colpì era il fango. Lo vidi come il simbolo di una quotidiana sofferenza di quella gente, dopo essere stata separata dai cari, spogliata, rasata, marchiata, umiliata dovevano ogni giorno trascinarsi nel fango. Niente poteva essere lieve, neanche la terra sotto i propri piedi.
Da quel giorno anch’io mi sento Ebreo